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Sacro Tufo

A poche decine di passi dalla casa in cui sono nato c'è un piccolo slargo, poco più di un incrocio che nasce dalla confluenza di tre strade. La toponomastica ufficiale non lo ritiene degno di un nome, eppure mio padre ha sempre chiamato quel posto "su a Sant'Antonio", anche se nessuna delle tre strade ha questo nome e nelle vicinanze non c'è una chiesa o una cappella dedicate al Santo. Eppure quel nome ha la sua ragione: ad assegnarlo è una piccola edicola con un ritratto di Sant'Antonio in piastrelle di maiolica montata al di sopra dello spigolo di uno dei muri che sagoma l'incrocio. È la traccia di uno dei compiti più antichi che le edicole sacre hanno svolto in questo come in altri luoghi d'Italia e probabilmente del mondo: fissare i punti di riferimento in una geografia basata più sulla consuetudine che sulla ufficialità delle mappe urbanistiche o sull'aiuto di targhe che in passato in pochi erano in grado di leggere.

Oggi che ognuno di noi porta in tasca la mappa dell'intero pianeta questo antico ruolo resta solo nel ricordo di qualche anziano; chissà cosa sopravvive della loro funzione originaria, legata alla richiesta di protezione soprannaturale per i luoghi e i loro abitanti e allo stesso tempo di speranza e memento spirituale per i viandanti. Di certo l'elemento tradizionale ancora sopravvive, visto che le installazioni recenti non sono meno numerose di quelle antiche, delle quali in molti casi non resta che il tabernacolo vuoto, spogliato nel tempo da chi ha ridotto il soprannaturale al valore di mercato delle sue rappresentazioni.

Insomma le edicole sacre, le statue, le croci costituiscono una rete fittissima intessuta tra il passato e il presente nel territorio della Penisola Sorrentina; una sorta di cartografia intima e vernacolare che ho deciso di percorrere quando - forse per l'approssimarsi dell'autunno - ho sentito l'esigenza di ricapitolare e allo stesso tempo approfondire la mia esperienza di questi luoghi, di rivolgere loro uno sguardo più profondo di quello che per consuetudine si era fatto superficiale e oleografico come capita ai tanti - forse troppi - turisti che passeggiano per queste terre.

Per ritornare in profondità ho pensato che fosse necessario avvicinare i miei tempi a quelli di questa terra mite e generosa, e muovermi lungo i suoi itinerari tortuosi con la lentezza a cui spesso costringono le sue nervose orografie, lasciando che fossero loro a dettare le cadenze dei miei respiri e il ritmo dei miei passi, e che mi insegnassero a cercare anche nelle gentrificate vie del centro le tracce di un passato in cui questa terra non doveva sforzarsi, come oggi fanno tutti i luoghi di vacanza, di assomigliare un po’ a ciò che i visitatori hanno lasciato intorno alle loro case.

Le immagini che seguono tentano di restituire le atmosfere di questa conversazione intima, in cui ho cercato di lasciare la mia terra libera di esprimersi con il linguaggio ammiccante del centro, quello in cui le edicole sembrano schegge di passato incastrate tra le vetrine delle boutique e i ristoranti per turisti, e quello più antico, fatto di spazi disegnati dai lastroni di basolato lavico - che ci ricordano come gli uomini e le cose da queste parti siano figli della Montagna - e dagli infiniti muri di tufo che tracciano vicoli angusti che all’improvviso si aprono sull’orizzonte mobile del mare, il cui respiro - quando al mattino i suoni antropici non si sono ancora svegliati - si sente dialogare con quello dei lecci, dei noci e degli ulivi sfiorati dalla brezza.
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